La morte delle due gemelle iraniane riporta in primo piano gli interrogativi morali che si accompagnano agli interventi per separare fratelli siamesi. Problemi di cui è facile dimenticarsi se tutto finisce bene, come quando il 15 maggio del 1965 a Torino l’équipe del professor Luigi Solerio, prima al mondo, separò con successo le gemelle Foglia. Al di là del ben diverso epilogo, si tratta sempre di situazioni assai spinose dal punto di vista morale, nelle quali luci e ombre si rincorrono fino a rendere difficile la definizione della cosa giusta da fare. Difficile, ma non impossibile. Nel caso del tentativo fallito a Singapore, il quadro clinico appare abbastanza chiaro: due giovani, vissute per 29 anni attaccate per una parte del cranio, hanno deciso di tentare la strada dell’intervento chirurgico. Ladan e Laleh non erano in pericolo di vita, mentre operandosi avrebbero avuto, nelle previsioni dei medici, intorno al 50% di possibilità di non farcela. Un rischio tutt’altro che marginale. D'altra parte, le condizioni di vita delle due ragazze rendono moralmente legittima la loro richiesta, che appare intuitivamente ragionevole. Proprio a questo livello si annida, però, un pericoloso equivoco: bisogna stare molto attenti a non dedurre che, allora, la qualità della vita vale di più della vita stessa; e che quindi ci sono anche altre situazioni in cui, piuttosto che convivere con certe menomazioni permanenti, sarebbe legittimo scegliere la morte. E’ bene ricordare che le due giovani siamesi non volevano la morte, nè la volevano i chirurghi. La loro condizione si può paragonare a quella di quei malati che, per rimuovere le conseguenze di una patologia, si sottopongono a un intervento rischioso, pur non essendo in pericolo di vita. In simili situazioni è lecito operare se i rischi appaiono ragionevoli in proporzione al beneficio sperato dall’intervento. Pensiamo al caso di una delicata operazione di plastica facciale per restituire un volto alla vittima di un grave incidente stradale. Ma l'aspetto più importante nella vicenda delle gemelle iraniane è che non sia stata pianificata la morte dell’una per salvare l'altra. Purtroppo, questa ipotesi si è verificata qualche anno fa, in Italia: nell’intervento per separare due gemelline peruviane, i medici avevano deciso in modo premeditato che era necessario sacrificare una bambina per far sopravvivere l’altra. Le gemelle morirono entrambe. A queste condizioni, l’intervento sarebbe illecito, perché i chirurghi, pure in vista di un bene - la separazione - avrebbero dovuto commettere un male volontario. Un altro aspetto problematico in questo tipo di interventi è il rischio di una certa spettacolarizzazione della medicina, unita alla sproporzione dei mezzi utilizzati: 3 giorni di operazione, 29 medici, 100 infermieri. In simili situazioni, ai chirurghi è richiesta una riserva supplementare di deontologia ippocratica, per non cedere alle sirene della celebrità, e alla voglia di operare a tutti i costi, magari “gonfiando” le probabilità di successo. La lezione più positiva di questa storia si trova, però, altrove: nel fatto che l’opinione pubblica mondiale per alcuni giorni ha guardato a queste due gemelle siamesi con la simpatia e il trasporto che si riserva agli esseri umani. Il mondo si è appassionato a Laden e Laleh perché in loro ha riconosciuto due persone, capaci di cogliere risultati eccellenti in una vita tutta in salita, fin dal principio. Una banalità? Non direi, se pensiamo che oggi molti gemelli siamesi non vengono neppure fatti nascere, attraverso un uso eugenetico della diagnostica prenatale. Contraddizione stridente di un mondo che trova risorse straordinarie per le siamesi da prima pagina, e poi nega la vita a due esseri umani che si trovano nelle medesime condizioni cliniche, nella fase prenatale. Nessuno oggi direbbe che Laden e Laleh hanno vissuto invano, che la loro vita è stata inutile, e che sarebbe stato meglio per loro non essere mai nate. Ricordiamoci di questa storia, ogni volta che ci viene voglia di stabilire a priori quali vite saranno felici o infelici, secondo criteri di giudizio e astratte teorie che queste due ragazze iraniane hanno smentito con la loro vita.
Mario Palmaro
Filosofo del diritto, Facoltà di Bioetica UPRA di Roma
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