sabato 17 novembre 2012

Alla Camera bruciano la contabilità. A noi Equitalia chiede i soldi di 20 anni fa



Alla Camera bruciano la contabilità. A noi Equitalia chiede soldi di 20 anni fa


di CLAUDIO ROMITI
Leggo su L’Indipendenza che per consuetudine italiota i capigruppo della Camera, oltre ad avere piena autonomia nel modo di spendere i ricchi contributi estorti a Pantalone, una volta concluso il loro mandato gettano nel cassonetto dei rifiuti l’intera contabilità, peraltro basata normalmente su una rendicontazione a dir poco ridicola. Ma una pari opportunità non è affatto concessa ai comuni mortali, soprattutto se lavoratori indipendenti, ai quali è fatto obbligo di trasformarsi per anni e anni in una sorta di archivi ambulanti, con la prospettiva ben poco allettante di vedersi recapitare tra capo e collo una qualche vessatoria contestazione da parte della famelica Equitalia. Contestazione spesso basata su errori formali, del tipo “la virgola è spostata troppo a sinistra di 0,01 millimetri”.
A tale proposito, proprio alcuni giorni orsono mio fratello, con il quale una ventina di anni addietro gestivo una impresa familiare, mi ha telefonato molto allarmato a causa di una perentoria richiesta di danaro -circa 300 euro- per un presunto ritardato pagamento dell’Irpef risalente, udite udite, addirittura al 1993, ossia prima ancora che Berlusconi scendesse in campo. Ma per ammantare di una qualche parvenza di legalità tale pretesa, la ben poco popolare struttura pubblica di esazione ha fatto riferimento ad una precedente notifica, peraltro datata 2001; ossia ben 11 anni orsono. Tant’è che, onde evitare l’esborso di una sanzione che all’inizio della fiera era di qualche spicciolo, si invita il malcapitato contribuente a presentare in uno dei tanti sperduti uffici della sterminata amministrazione fiscale le eventuali ricevute di pagamento.
Ora, al di là di questa ennesima storia di ordinaria follia burocratica, la vicenda segnala ancora una volta alcune insopportabili caratteristiche di un sistema destinato a trascinarci tutti nel baratro del fallimento. In primis, per chiunque abbia gestito in proprio una qualche attività privata, pure se cessata da parecchi lustri, resta in forse la certezza dei redditi conseguiti a suo tempo, semprechè non si abbia addirittura chiuso qualche annualità in perdita. Sotto questo profilo nessun antico contribuente chiamato all’autotassazione può mai dormire sonni tranquilli: la macchina infermale di Equitalia potrebbe in qualsiasi momento rispolverare una antica mancanza, vera o presunta, condannando il “reo” a sborsare somme senza alcun limite ragionevole, chiamandolo in alternativa ad esibire documenti risalenti alla Guerra del 15/18. E questa sorta di incertezza retrattiva della sanzione, lo capirebbe pure il keynesiano più incallito, rappresenta un formidabile disincentivo ad intraprendere una qualsiasi forma di attività imprenditoriale di mercato; soprattutto per chi ha già avuto modo di saggiare i gironi infernali della prassi fiscale di questo disgraziatissimo Paese.
In secondo luogo, tutto ciò dimostra -se ce ne fosse ancora bisogno- che quella specie di mostro che chiamiamo Stato e le sue leve di comando politico-burocratiche non si fanno più alcuno scrupolo nel raschiare il fondo di un barile oramai ridotto ad un colabrodo. Pur di raccattare il maggior numero di risorse, onde alimentare una macchina pubblica impazzita, i paladini dell’equità burocratica -quella che ti manda per stracci, tanto per intenderci- si attaccano a qualunque errore formale di antica memoria, vero od inventato che sia. L’importante è rapinare ciò che resta nelle tasche di chi, magari per un errore di gioventù, ha osato anche per poco tempo far parte di quella sfortunata schiera di produttori privati, nati ahiloro nel posto sbagliato.  Un Paese che incontra un ex-imprenditore e con qualunque trucco gli estorce altri soldi su un reddito d’antan, è un Paese morto.  Non credo vi sia altro da aggiungere.

http://www.lindipendenza.com/

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