Autore: Alberto Rosselli Nell’autunno del 1943, con lo scopo di ‘ricostruire’ la cinematografia italiana, il ministro della Cultura e Propaganda della neonata Repubblica Sociale Italiana, Fernando Mezzasoma volle chiamare a raccolta registi, sceneggiatori, tecnici e attori, sollecitando un loro trasferimento a Venezia, dove fervevano i lavori per la costituzione di un centro di produzione, situato presso l’ex fabbrica di birra della Giudecca ed in seguito chiamato ‘Cineisola’ o ‘Cinevillaggio’. La struttura avrebbe dovuto prendere il posto di Cinecittà, gravemente danneggiata dalle incursioni aree alleate. Purtroppo, in quel periodo, a Roma, nessun produttore o regista italiano appariva intenzionato a riprendere il lavoro anche perché l’intera ossatura del mondo cinematografico risultava allo sbando. Chi era rimasto nella capitale si era reso infatti irreperibile per attendere, in luoghi più o meno sicuri, l’evolversi degli eventi. Tra questi: Vittorio De Sica, Alessandro Blasetti, Augusto Genina, Mario Camerini, Goffredo Alessandrini, Clara Calamai, Massimo Girotti, Fosco Giachetti, Gino Cervi e Carlo Ninchi. Dopo l’arresto, avvenuto il 25 luglio, di Michele e Salvatore Scalera (titolari della omonima casa) da parte dei badogliani, il direttore di Cinecittà Guido Oliva si era suicidato e Luigi Freddi, presidente della E.N.I.C., era scomparso momentaneamente dalla circolazione. Dunque, a fronte della sostanziale dissoluzione del ricco mondo cinematografico italiano, il compito di Mezzasoma appariva non soltanto difficile, ma quasi impossibile, cosa che tuttavia non disarmò il ministro. Secondo i piani di Mezzasoma, società come la Scalera Film e la Cines avrebbero dovuto raccogliere personale e materiali e partire subito per Venezia, seguiti dall’ex direttore della cinematografia Luigi Freddi, da Nino D’Aroma e da Giorgio Venturini che, nel frattempo erano ricomparsi, aderendo a Salò. Ad essi sarebbe stata affidato il compito di dirigere e gestire la nuova struttura. Oltre ai capannoni della Giudecca, la Cines e la Scalera si sarebbero potute avvalere, a partire dal gennaio del 1944, di un teatro di posa ricavato presso il Padiglione Italia dei Giardini della Biennale veneziana.. Va detto che, durante la Repubblica Sociale Italiana, i film prodotti (circa una dozzina) vennero girati non soltanto a Venezia, ma anche a Torino, presso gli attrezzati stabilimenti cinematografici della Fert di corso Lombardia, e in studi minori situati a Montecatini e Budrio. Sulla cinematografia della Repubblica Sociale Italiana tutti i critici italiani del dopoguerra hanno sempre sparato ad alzo zero. Tullio Kezich ha dichiarato di non avere mai notato “nemmeno un titolo decoroso fra quelle poche pellicole realizzate nel Cinevillaggio della Giudecca”. Mentre secondo Gian Piero Brunetta “a parte De Robertis, gli altri registi erano tutti di serie Z”. Brunetta ha però individuato per talune pellicole un certo interesse, “non fosse altro per il fatto che essi recano i segni del momento storico”. Ben più fazioso e falso il più datato giudizio (del 12 giugno 1944) espresso dall’ex-sceneggiatore di regime e futuro co-fondatore del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici Italiani, Vittorio Calvino. “Luigi Freddi, Mino Doletti e Alessandro De Stefano – sentenziò Calvino - sono uomini di malaffare (…) circondati da uno sparuto gruppetto di falliti, tra cui la ‘divissima’ Doris Duranti e la coppia Valenti-Ferida”. Ritornando al presente, c’è stato poi chi, come il critico e storico Paola Olivetti, è arrivato a sovrapporre gli scopi e la contenutistica della quasi totalità della produzione cinematografica della R.S.I. “alla più assoluta incapacità di portare sugli schermi un qualcosa di almeno paragonabile alle produzioni del periodo 1922-1932”. “La cinematografia di Salò – argomenta la Olivetti – altro non fu che un sottoprodotto di quella italiana negli anni di guerra. Eppure i nuovi dirigenti della repubblica, Mussolini in testa, seguito da Alessandro Pavolini e dal ministro Fernando Mezzasoma, erano ben consci della necessità di continuare l’attività di produzione (…) Il cinema di Salò risorgeva ma lavoricchiava (…) anche perché al nord erano migrati solo due attori di fama, Valenti e la Ferida, attratti più che altro dal miraggio ‘alimentare’”. Osservazioni, quelle della Olivetti, parzialmente vere, ma che non tengono conto della drammaticità del periodo e soprattutto della spaventosa penuria di mezzi e di denaro del ministero della Cultura della R.S.I. Comunque sia, penuria di denaro o meno, oltre alla Ferida (al secolo Luigia Manfrini Farné) e a Valenti, decisero di prendere la via di Venezia anche altri attori come Doris Duranti, Roberto Villa, Antonio Gandusio, Maurizio D’Ancora, Germana Paolieri, Toti dal Monte, Salvo Randone ed Emma Gramatica. Mentre Amedeo Nazzari, assieme ad Adriano Rimordi, Paola Barbara, Primo Zeglio, Nerio Bernardi, Laura Solari ed altri, preferirono trasferirsi in Spagna. Un’ultima annotazione. Data la sua innegabile bravura, la Ferida (che nel 1942 aveva interpretato in maniera esemplare il bistrattato melodramma francese in salsa naturalista Fari nella nebbia di Gianni Franciolini) sarebbe forse potuta rimanere al sud, come fecero altri attori abbondantemente compromessi con il passato regime mussoliniano, e in un secondo tempo riprendere a lavorare. Ma essendo, come è noto, legata sentimentalmente a Valenti optò invece per Venezia, complice anche una sorta di riconoscenza nei confronti della cinematografia fascista che l’aveva lanciata. Circa poi il presunto (e mai provato) ruolo della coppia nei lugubri panni di “torturatori di partigiani”, va detto che nei primi otto o nove mesi del 1944, i due frequentarono più a meno saltuariamente la famosa Villa Triste, sede della polizia autonoma del collaborazionista Koch, senza tuttavia partecipare, come è stato scritto dagli storici del dopoguerra, ad alcuna “orgia a base di droghe e sacrifici umani”. Certo è che i rapporti di conoscenza, e probabilmente di amicizia, tra Valenti e Koch, furono sufficienti a compromettere irrimediabilmente il destino dei due noti attori che vennero barbaramente uccisi il 30 aprile del ’45 a Milano dagli uomini della banda comunista Marozin, dietro ordine di Sandro Pertini (“la loro fama ha giocato a favore dei repubblichini. Dovevano pagare!”, da Era Cinecittà, di Oreste Del Buono e Lietta Tornabuoni, Bompiani Edizioni, Milano 1980). Tornando alla Ferida, nell’immediato dopoguerra alcuni critici politicamente schierati a sinistra arrivarono a metterne in dubbio le capacità professionali. Anche se l’autorevole Enciclopedia dello Spettacolo, curata da Silvio D’Amico (ma anche altre attendibili fonti), fornisce dell’attrice un ritratto tanto sintetico quanto lusinghiero. ”Dotata di temperamento non comune, di un’originale fotogenia e di un fisico sensuale, ella fu forse l’attrice cinematografica italiana più viva del suo tempo. La sua carnalità, tipicamente nostrana, si confaceva particolarmente alle incipienti ricerche realistiche del cinema italiano intorno al ‘40, di cui incarnò alcuni dei personaggi femminili più significativi” Ma ritorniamo al presunto “infimo” profilo e agli altrettanti “infimi” intendimenti, secondo Vittorio Calvino, della cinematografia di Salò. Per la scrittrice Paola Ojetti, già traduttrice di Shakespeare, divulgatrice in Italia dei lavori di Karen Blixen, e memoria storica del cinema della R.S.I., citata dalla stessa Olivetti, “dopo una sosta di sei mesi la cinematografia italiana rinasce: più pura, più degna del suo scopo. Essa non era più una girandola di cifre astronomiche, di sprechi, di sciali e di retorica (…) Era ora di ricostruire, non di stare a guardare. Era ora di servire, non di essere serviti. Una sola divinità doveva rimanere sull’altare: La patria”. E a pensarla più o meno alla stessa maniera erano anche un intellettuale fascista radicale come Asvero Gravelli e Alessandro Pavolini. “Grazie a Dio ora gli autori e registi cinematografici – scrisse Pavolini - vengono sollecitati ad immaginare e realizzare soggetti che abbisognano unicamente di pochi e modesti ambienti; il film storico è guardato nel nuovo cinema come una peste; si tratta di trovare (dicono non par credibile, i produttori sbruffoni di ieri) argomenti vivi, attuali, semplici, umani... Insomma, non tutto il male viene per nuocere, vorrei ottimisticamente concludere. Se questa Italia adorata soffre, non potremo incolpare che noi medesimi, i nostri difetti di italiani. Ma forse l’atroce lezione, con tutte le sue conseguenze funeste, varrà almeno a renderci consapevoli di tali difetti e a darci la disperata volontà di correggerli. Nel settore dello spettacolo che qui ci importa, io fermamente credo che le condizioni necessarie per una nuova e più intima dignità nazionale siano tutte presenti”. Osservazioni e proponimenti quelli di Gravelli e di Pavolini che tuttavia lasciarono perplessi alcuni registi già trasferitisi a Venezia, come ad esempio Piero Ballerini. “Belle parole…nobili propositi…lungimiranti intuizioni, ma ormai è troppo tardi! (…) Per troppo tempo al pubblico italiano si sono offerti spettacoli di una gioventù sana e vitale; di una borghesia tranquilla e conformista, senza mai porre problemi che coinvolgessero gli interessi del paese”. Gli esordi del cinema della Repubblica Sociale Italiana non furono dei più incoraggianti. La prima produzione di Salò - Un fatto di cronaca (22 febbraio 1944), tratto dal romanzo La vita può ricominciare di Alfredo Vanni e diretto proprio da Piero Ballerini - venne infatti abbastanza maltrattata dalla stessa critica repubblicana. “In Un fatto di cronaca, l’azione appare lenta, fredda e si giova di luoghi comuni, puerili, lontani dalla realtà. Pur tuttavia qualche scorcio è ben evidenziato e nel complesso il film riesce interessante. La fotografia a volte non è molto chiara e la recitazione non ha sempre quel tono caldo, vibrante ed appassionato necessario in un film del genere”. (C. Manganiello, ‘Il Gazzettino’, 4/2/1945). Seguirono poi due altri lavori di diversa natura, una commedia e un dramma storico: La locandiera di Luigi Chiarini e l’Enrico IV di Giorgio Pàstina. Il primo (pellicola della fine del 1943, ultimata nel 1944), libera riduzione dell’omonima opera di Carlo Goldoni del 1753, si avvalse dell’interpretazione di Osvaldo Valenti, Luisa Ferida, Camillo Pilotto, Gino Cervi, Paola Borboni, Armando Falconi ed Elsa De Giorgi. Sceneggiato da Umberto Barbaro e Francesco Pasinetti, il film era al montaggio l’8 settembre 1943: per non andare al nord il regista lo abbandonò alla sua sorte. Fu finito e doppiato (malamente) da altri. “L’azione, con intento discutibile, è stata tradotta in modo che partecipasse del balletto e dell’opera buffa ... Ciò che nel film è bello non è goldoniano. Un errore che è frutto d’intelligenza...”. (Morando Morandini). L’Enrico IV di Pàstina, girato nel 1944 (talune fonti riportano il 1943) ed interpretato da Osvaldo Valenti, Lauro Gazzolo, Ruby D’Alma e Clara Calamai, è anch’esso un film tutto sommato accettabile. La pellicola, tratta dal celebre dramma di Luigi Pirandello del 1922, narra la follia vera e quella simulata di un nobile che, perso il senno in seguito ad una caduta da cavallo, si crede il re tedesco Enrico IV. Convinto del suo ruolo, l’uomo si rinchiude per vent’anni in un castello, accettando infine di ricevere visite e di raccontare la sua storia. Alla realizzazione della pellicola contribuirono Stefano Landi e Vitaliano Brancati. I due trassero dal lavoro originale una libera sceneggiatura che portò ad una produzione che, secondo il Morandini, “risulta efficace e non poco effettistica, con un Osvaldo Valenti concitato, bravo, ma senza interiorità”. Più interessanti appaiono i soggetti contemporanei e di ‘attualità’. In Ogni giorno è domenica (1944) di Mario Baffico, troviamo un soldato italiano che nel 1941 fa ritorno a Venezia dal fronte albanese dove, a causa di una brutta ferita, ha perso una gamba. Non volendo farsi rivedere menomato dalla sua fidanzata, l’uomo decide di eclissarsi, perdendosi volutamente nei meandri di un’Italia che, in quanto a scorci e a sottile tristezza diffusa, ricorda un paese dell’ex-Patto di Varsavia. La trama della pellicola, improntata ad un asciutto realismo, pecca di evidente semplicità, ma sotto il profilo intellettuale si rivela onesta e per nulla bellicista. La guerra viene infatti vista come un dramma niente affatto epico o glorioso che travolge le esistenze di uomini e donne, mettendo a repentaglio anche i sentimenti più profondi. Senza considerare che la Venezia descritta da Baffico non è certo quella luminosa e nobile celebrata in passato da altre produzioni. Le calli sono particolarmente buie e popolate da operai, pescatori, artigiani e piccoli impiegati in abiti lisi e trasandati. Tutto sa di povertà, di precarietà e di rassegnazione. Tutto sembra o è già perduto. Insomma, realtà e aderenza al drammatico contesto storico. Anche Aeroporto, girato nel 1944 tra Montecatini e Vicenza da Piero Costa (e prodotto dalla Italo Africana Società Commerciale di Venezia), offre – se lo si analizza con attenzione - spunti non meno interessanti, soprattutto per quanto concerne il coraggio con il quale viene annotato (ci si domanda se in maniera volontaria o involontaria) il ruolo, evidentemente marginale ai fini delle sorti del conflitto, svolto dalle forze armate della R.S.I. Sulla pista e nelle baracche di un modesto aeroporto del nord regna un clima quasi crepuscolare, lontanissimo dalle esaltanti imprese aeronautiche, civili e militari, degli anni d’oro del fascismo. I velivoli da combattimento sono rari e in mancanza di autobotti gli avieri sono costretti a rifornirli addirittura con fiaschi di benzina: segnale inequivocabile del disfacimento militare della Repubblica. Incredibile, a questo proposito, che tali immagini siano state avvallate dalla censura. I personaggi del film si muovono poi in interni ed esterni che poco hanno a che fare con le tradizionali ambientazioni militari del Ventennio. Gli interpreti dialogano non a fianco di possenti bombardieri in procinto di andare a colpire il nemico o nei pressi di eleganti caccia difensori dei cieli della patria, ma al contrario in luoghi di terra, ristretti, banali e abbastanza lugubri. Si chiacchiera in una specie di bar situato non lontano dal campo, soffocati – e in questo la Olivetti ha ragione – da una sorta di forzata inattività, dovuta però non ad una presunta “povertà spirituale”, ma ad un’oggettiva impossibilità di agire. Convinta, probabilmente, che si tratti di un film di propaganda, la Olivetti stenta a comprendere perché il regista non abbia fatto ricorso ad almeno un simulato combattimento aereo o a qualche scena ad effetto. Anzi, ella lamenta perfino l’assenza negli interpreti “della passione per le armi”, dimostrando con questo di essere lontana dall’avere capito il vero e piuttosto evidente significato della pellicola. Al di là di alcune sue gravi carenze (i dialoghi sono effettivamente sciatti e la recitazione sottotono), Aeroporto (interpretato da Carlo Minello, Anna Arena e Silvio Bagolini) è semplicemente un film decadente in cui il regista ha tentato di privilegiare l’analisi intimistica dei personaggi, riuscendo però solo in minima parte in questo intento. Aeroporto è poi un film che non ha nulla o quasi di propagandistico, anzi.. Una curiosità. La storia narrata venne suggerita al regista Piero Costa da un anonimo sergente della Regia Aeronautica che all’inizio del settembre 1943 - avendo sospettato che il governo Badoglio stesse per firmare l’armistizio con gli alleati - era fuggito con il suo aereo dalla base di Pantelleria verso il nord Italia per continuare a combattere contro gli anglo-americani. Del medesimo registro è anche La buona fortuna (completato nel 1944 a Montecatini) di Fernando Cerchio, in cui, seppure come scenario lontano, compare nuovamente la guerra, vissuta anche questa volta in maniera del tutto differente rispetto al passato. La trama è infatti avvolta da un’atmosfera disincantata e sotto certi aspetti antimilitarista o (per usare un termine estremo e abusato) qualunquista. Si tratta di una caratteristica particolare e marcata, riscontrabile anche nel film di Federico De Robertis, Uomini e cieli, iniziato nel 1943 ed ultimato nel 1945. In questo lavoro, il protagonista è un soldato mutilato (ha perso una gamba in combattimento) che vive il suo dramma umano prima chiudendosi in se stesso e poi trovando un nuovo stimolo alla vita nell’amore. Anche qui la guerra fa da opaco sottofondo e da causa al disagio psicologico dei personaggi, ragione per cui viene intesa dallo spettatore in senso chiaramente negativo. Nell’autunno del ‘43, subito dopo avere aderito alla R.S.I., De Robertis aveva esordito al nord con il film decisamente più avventuroso e bellicoso, Marinai senza stellette (produzione Scalera) vicenda di due coraggiosi giovani alle prese con la vita di mare e con la guerra. “Uno dei due ragazzi si chiamava Tito Stagno, futuro giornalista del piccolo schermo”. Di Francesco De Robertis è un altro film, diverso e abbastanza curioso, Dieci minuti di vita (o Vivere ancora) incentrato sulla storia di un uomo squilibrato che con una carica di esplosivo vuole far saltare in aria un palazzo. Il film ruota intorno alla vicenda della ricerca dell’ordigno nei vari appartamenti dello stabile, dove fanno capolino personaggi afflitti (data la sindrome da bombardamenti tipica del periodo) da ossessioni maniacali. Il film iniziato a girare nel 1943 a Cinecittà da Leo Longanesi, venne poi ultimato nel 1944 (con il titolo Vivere ancora) a Torino, da Nino Giannini che si avvalse della collaborazione di Ennio Flaiano e di Paola Ojetti. Essendo la pellicola articolata in vari episodi, il regista poté portarla a compimento senza eccessivi problemi, nonostante l’assenza di Gino Cervi che, pur non essendosi trasferito al nord, aveva però già interpretato la sua parte. Tra gli altri attori, Nuto Navarrini, Tito Schipa, Lida Baarova e Carlo Dapporto che sostituirono il cast originale composto da Clara Calamai, Umberto Melnati, Assia Noris e Giuditta Rissone. Nel febbraio del 1945, Fernando Cerchio si trovava nel capoluogo piemontese dove, con Carlo Borghesio (entrambi erano stati allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia), stava iniziando le riprese di Porte chiuse, la cui realizzazione venne però interrotta nell’aprile dello stesso anno. Forse per cercare di sganciarsi dal carro dei perdenti, il 22 dello stesso mese Cerchio prese contatto con gruppi partigiani socialisti dai quali ottenne dopo la liberazione l’incarico di realizzare un documentario sulla Resistenza intitolato Aldo dice 26 x 1. La carrellata sul cinema di Salò sarebbe incompleta se dimenticassimo di segnalare alcune altre produzioni, come il dramma in due episodi Senza famiglia- Ritorno al nido (completato a Venezia nel 1945) di Giorgio Ferroni, interpretato da Bianca Doria, Elio Steiner, Nada Fiorelli ed Erminio Spalla. Il film, girato interamente nella città lagunare, fu tratto dal romanzo di Hector Malot. Segue poi il drammatico ma modesto Peccatori (ultimato a Montecatini nel gennaio 1944), di Flavio Calzavara (con Elena Zareschi, Nino Crisman e Renato Bossi), e sempre di Calzavara, Resurrezione(1944) interpretato da Doris Duranti, Claudio Gora, Germana Paolieri e Guido Notari. Questa buona pellicola, tratta dal romanzo di Tolstoj del 1899, venne sceneggiata da Corrado Alvaro e Tomaso Smith. La trama narra le vicende di una contadina russa che, sedotta e abbandonata da un aristocratico, ritrova l’uomo in tribunale, dove lei è imputata, tra i giurati. Dopo avere cercato inutilmente di farla assolvere, l’aristocratico, pentito, decide di seguire la donna in Siberia. Secondo il critico Morandini Resurrezione è “un dramma decoroso ed efficace con un’intensa interpretazione della Duranti”. Tra il 1944 e il 1945, vennero anche prodotti i ‘minori’ Scadenza trenta giorni, di Luigi Giacosi (1944), Il processo delle zitelle di Carlo Borghesio (1944); Fiori D’Arancio, di Dino Hobbes Cecchini (1945) e Casello n. 3, di Giorgio Ferroni (ultimato a Budrio nel 1945). Elenchiamo, infine, le pellicole di Salo’ la cui lavorazione venne interrotta dal termine del conflitto: L’ultimo sogno, di Marcello Albani (iniziato a Budrio nel 1945); Caposaldo, di Andrea Miano (iniziato a Genova nel 1945); La signora è servita, di Nino Giannini (iniziato a Torino nel 1945); Rosalba, di Ferruccio Cerio (iniziato a Venezia nel 1945); L’angelo del miracolo, di Piero Ballerini (iniziato a Venezia nel 1945); Posto di blocco, di Ferruccio Cerio (iniziato a Venezia nel 1945); Trent’anni di servizio, di Mario Baffico (iniziato a Venezia nel 1945), Vi saluto dall’altro mondo, di Dino Hobbes Cecchini (iniziato a Torino nel 1945) e I figli della laguna, di Piero Costa, interpretato da Luciano De Ambrosis, Carlo Micheluzzi e Anna Bianchi. Il primo ciack de I figli della laguna (prodotto dalla Scalera) risale a pochi giorni prima del tracollo della R.S.I., e cioè il 20 aprile del 1945, tanto è vero che Piero Costa dovette interrompere i lavori. Il film verrà recuperato ed ultimato nel dopoguerra da Francesco De Robertis. Dopo il 25 aprile, buona parte dei registi, sceneggiatori ed attori che avevano lavorato per la R.S.I. (ma anche alcuni che erano rimasti a Roma) vennero emarginati, senza contare quelli che finirono processati, come gli umoristi Marcello Marchesi, Vittorio Metz, il musicista Alessandro Dereviski, il comico Nuto Navarrini, l’attore Nino Crisman, l’attrice Mariuccia Dominicani (accusata di essere stata l’amante di Ettore Muti), la soubrette Vera Rol, che subì anche lo stupro e la rasatura dei capelli, e Valentina Cortese che, nonostante fosse da tempo nella lista degli epurabili per avere distribuito, nel dicembre ‘43, doni ai feriti della milizia fascista e delle SS tedesche al teatro dell’Opera di Roma, riuscirà fortunatamente ad evitare rasature o peggio. Nel redigere le liste di proscrizione dei “cineasti fascisti” si mise in luce per indefesso zelo, Gianni Puccini, già redattore del periodico Cinema e uomo protetto da Vittorio Mussolini: “Questi – disse un giorno additando alcune foto di produttori, registi e attori incriminati - sono i traditori. Guardiamoli bene in faccia e non dimentichiamoli”. Cosa più facile a dirsi che a farsi se si considera che dopo l’8 settembre e durante il periodo della Repubblica di Salò gli artisti che accettarono (anche per non cadere dell’indigenza) di continuare a lavorare al cinema, in teatro o nell’avanspettacolo per i tedeschi o per i fascisti furono moltissimi. Ne citiamo soltanto alcuni: Giulio Donadio, Gornj Kramer, Natalino Otto, Gilberto Govi, Memo Benassi, Renzo Ricci, Eva Magni, Ruggero Ruggeri, Elena Zareschi, Giulio Stival, Fanny Marchiò, Diana Torrieri, Paolo Carnabuci, Evi Maltagliati, Roberto Villa, Luigi Cimara, Dina Galli, Wanda Osiris, Renato Rascel, Nino Taranto, Marisa Maresca, Ugo Tognazzi e Walter Chiari, autori questi ultimi due, nel 1944, di una popolare trasmissione della ‘nordista’ ‘Radio Tevere, voce di Roma libera’ (emittente creata nella primavera del 1944 a Busto Arsizio dall’EIAR). Bibliografia; A. Rosselli – B. Pampaloni, Il Ventennio in celluloide, Ed. Settimo Sigillo, Roma, 2005. R. Redi (a cura di), Cinema italiano sotto il fascismo, Marsilio, Venezia 1979 (atti di un Convegno tenutosi ad Ancona nel 1976) M. Argentieri, L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema fascista, Vallecchi, Firenze 1979 M. Furno-R. Renzi (a cura di), Il neorealismo nel fascismo, Tipografia Compositori, Bologna 1984 M. Sanfilippo, Historic Park - La storia e il cinema, Elle U Multimedia Editore, 2004 G.M. Gori, Patria Diva. La storia d’Italia nei film del ventennio, La Casa Usher, Firenze 1988 G.P. Brunetta-J.A. Gili, L’ora d’Africa del cinema italiano, Materiali di lavoro, Trento 1990 G.P. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Bari 1991 P. Mereghetti, Dizionario dei film, Milano 1993 N. Frank, Cinema dell’arte, Parigi 1951 R. Renzi (a cura), Il cinema dei dittatori. Mussolini, Stalin, Hitler, Grafis Edizioni, Bologna 1992 M. Argentieri (a cura di), Schermi di guerra. Cinema italiano 1939-1945, Bulzoni, Roma 1995 M. Argentieri, Il cinema in guerra. Arte, comunicazione e propaganda in Italia 1940-1944, Editori Riuniti, Roma 1998 A. Sardi, Cinque anni di vita dell’Istituto Nazionale L.U.C.E., Roma, Istituto Nazionale Luce, 1929 P. Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. II, Il cinema del regime 1929-1945, Editori Riuniti, Roma 1993 M. Argentieri (a cura di), Risate di regime. La commedia italiana 1930-1944, Marsilio, Venezia, 1991 R. Redi, Cinema italiano sotto il fascismo, Marsilio, Venezia 1979 J.A. Gili, Stato fascista e cinematografia. Repressione e promozione, Bulzoni, Roma 1981 M. Landy, Fascism in Film. The Italian Commercial Cinema 1931-1943, Princeton U.P., Princeton, N.J., 1986 V. Ruffin e P. D’Agostino, Dialoghi di regime, Bulzoni, Roma 1997 O. Reggiani, Luisa Ferida, Osvaldo Valenti. Ascesa e caduta di due stelle del cinema, Editore Spirali/Vel, Milano 2001 Per gentile concessione del Dott. Alberto Rosselli, Giornalista. Nell'immagine, Luisa Ferida, una delle stelle del cinema della R.S.I..
Fonte:
http://www.tuttostoria.net/focus_recensione_storia_contemporanea.aspx?ID=351
Tante volte, abbiamo notato, più o meno distrattamente, dei segni e delle scritte sui paramenti sacri, sui tabernacoli, sugli altari, sulle icone, insieme a disegni di animali e simboli strani. Magari ci siamo chiesti quale fosse il loro significato ripromettendoci di andarlo a cercare da qualche parte.Adesso, qui di seguito, ne indicheremo i più comuni col loro significato e se per caso qualcuno ci fosse sfuggito e vi interessa, scriveteci e cercheremo di darvi le necessarie spiegazioni.Per prima cosa va indicata la differenza che passa tra il simbolo ed il segno: quando parliamo di segno si tratti di un disegno, una scritta, un oggetto, esso vuole indicare direttamente ciò che vuole significare. Per esempio l’acqua, indica il significato diretto delle sue qualità: l’acqua disseta, lava, purifica, è limpida ecc. Così la sua rappresentazione indica proprio queste sue caratteristiche, anche se figurate.
Il simbolo, invece, unisce (la parola stessa simbolo, esprime questa capacità di unire) due realtà apparentemente differenti. Solo un accordo, una convenzione più o meno tacitamente concordata crea il legame che una volta accettato diventa anche emotivamente significativo (per esempio la bandiera o l’inno di una nazione, non sono la Nazione e tuttavia riescono ad emozionarci).
Da questo punto di vista, l’icona bizantina, anche se attraverso la raffigurazione pittorica, per i cristiani ortodossi rappresenta la presenza reale (seppur spirituale) di ciò che viene raffigurato. Per questo essi mostrano tanta devozione per questi dipinti che vengono e sono considerati davvero sacri.
Il simbolismo religioso, per le sue caratteristiche di semplicità, immediatezza ed universalità, facilita la comprensione e la diffusione di concetti-chiave delle rispettive religioni in vasti strati della popolazione. Le immagini sacre (quadri, affreschi, statue...) sono altrettanti simboli che aiutano la preghiera e rafforzano la devozione.
Il ricorso al simbolo del cristianesimo delle origini, dipese anche dal divieto di idolatrare le immagini (iconoclastìa) che i cristiani ereditarono dalla tradizione ebraica. In un primo momento, infatti, si impedì qualsiasi rappresentazione di Cristo e di Maria. Quindi i primi cristiani utilizzarono come mezzi espressivi e di appartenenza alla loro religione, due tipi di rappresentazioni: una Simbolica-astratta, con segni e forme astratte (per esempio la croce, il pesce stilizzato, le lettere greche, ecc); l’altra Figurata, ma con significati nuovi e nascosti, comprensibili solo ai cristiani.
Ecco alcuni simboli tra i più comuni:
Il ricorso al simbolo del cristianesimo delle origini, dipese anche dal divieto di idolatrare le immagini (iconoclastìa) che i cristiani ereditarono dalla tradizione ebraica. In un primo momento, infatti, si impedì qualsiasi rappresentazione di Cristo e di Maria. Quindi i primi cristiani utilizzarono come mezzi espressivi e di appartenenza alla loro religione, due tipi di rappresentazioni: una Simbolica-astratta, con segni e forme astratte (per esempio la croce, il pesce stilizzato, le lettere greche, ecc); l’altra Figurata, ma con significati nuovi e nascosti, comprensibili solo ai cristiani.
Ecco alcuni simboli tra i più comuni:
La sigla JHS o Trigramma (in alfabeto greco JЙΣ) compare per la prima volta nel III secolo fra le abbreviazioni utilizzate nei manoscritti greci del Nuovo Testamento, abbreviazioni chiamate oggi Nomina sacra. Essa indica l'abbreviazione del nome ΙΗΣΟΥΣ ( cioè "Iesous", Gesù, in lingua greca antica e caratteri maiuscoli).La sigma (la esse), che nell'originale greco era scritta nella forma di sigma lunata, molto simile a una "C", da cui le varianti tardo-antiche: IHC oppure JHC, nell'alfabeto latino divenne una S a tutti gli effetti e la H che in greco è una eta (cioè una E) fu scambiata per acca per cui nel Medio Evo il simbolo fu riportato con un significato differente: JESUS HOMINUM SALVATOR (Gesù Salvatore degli uomini).
Nel corso dei secoli il simbolo fu arricchito dai copisti con segni e tratti artistici fino ad intrecciare le lettere tra di loro e divenendo più un disegno grafico che un simbolo di qualcosa. Quando si cercò di mettere ordine e chiarezza, intorno al XVI secolo, il tratto superiore che indica in greco che si tratta di una abbreviazione, si combinò con un tratto verticale così da formare una croce o un trifoglio.
E' così che la troviamo rappresentata un po' dappertutto: su affreschi, quadri d'altare, miniature, chiavi di volta, paramenti sacri. A volte è rappresentato al centro di un sole raggiante, come sigillo di alcune antiche città, intendendo che l'irraggiamento del cristianesimo è il cemento ideale per ogni società.
Nel corso dei secoli il simbolo fu arricchito dai copisti con segni e tratti artistici fino ad intrecciare le lettere tra di loro e divenendo più un disegno grafico che un simbolo di qualcosa. Quando si cercò di mettere ordine e chiarezza, intorno al XVI secolo, il tratto superiore che indica in greco che si tratta di una abbreviazione, si combinò con un tratto verticale così da formare una croce o un trifoglio.
E' così che la troviamo rappresentata un po' dappertutto: su affreschi, quadri d'altare, miniature, chiavi di volta, paramenti sacri. A volte è rappresentato al centro di un sole raggiante, come sigillo di alcune antiche città, intendendo che l'irraggiamento del cristianesimo è il cemento ideale per ogni società.
'Ιησοῦς Χριστός Θεoῦ Υιός Σωτήρ
(Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr)
Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore
(Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr)
Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore
Si definisce ichthýs il simbolo di un pesce stilizzato, formato da due curve che partono da uno stesso punto, a sinistra (la "testa"), e che si incrociano quindi sulla destra (la "coda").
La simbologia cristiana dei tempi delle Persecuzione dei cristiani nell'impero romano (I-IV secolo) è molto ricca. A causa della diffidenza di cui erano oggetto da parte delle autorità Imperiali, i seguaci di Gesù sentirono l'esigenza di inventare nuovi sistemi di riconoscimento che sancissero la loro appartenenza alla comunità senza destare sospetti tra i pagani.


il Chi Rho è per antonomasia il monogramma di Cristo (nome abbreviato talora in chrismon o crismon). Esso è un monogramma costituito essenzialmente dalla sovrapposizione delle prime due lettere del nome greco di Cristo, X (equivalente a “ch” nell'alfabeto latino) e P (che indica il suono “r”). Alcune altre lettere e simboli sono spesso aggiunti.
INRI: è il Titulus crucis, un acronimo ottenuto dalla frase latina Iesous Nazarenus Rex Iudaeorum, che significa: Gesù di Nazaret, re dei giudei. Secondo i Vangeli la scritta fu voluta da Pilato e posta sopra la croce di Gesù crocifisso.
ICXC: è un acronimo ottenuto dalla prima ed ultima lettera delle due parole Gesù e Cristo, scritte secondo l'alfabeto greco (ΙΗΣΟΥC ΧΡΙΣΤΟC Si noti che la lettera finale sigma (esse) viene scritta nella forma lunata che ricorda la lettera latina C). Compare molto spesso sulle icone ortodosse, dove il monogramma può essere diviso: "IC" nella parte sinistra dell'immagine e "XC" nella parte destra.


Α-Ω Alfa e Omega: sono la prima e ultima lettera dell’alfabeto greco, indicano che Cristo è l’inizio e la fine di tutto secondo la citazione dell’Apocalisse.

Dopo la profezia di Isaia, «Dio ha fatto ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Lo si maltratta, e lui patisce e non apre bocca, simile all'agnello condotto al macello», Giovanni il Battista dirà di Gesú che gli veniva incontro nella valle del Giordano: «Ecco l'agnello di Dio: ecco Colui che toglie i peccati del mondo».
Il venerdì santo Gesù, come vittima espiatoria, prende su di sé i peccati dell'umanità ed assume il senso del sacrificio dell’agnello preparato per la pasqua ebraica e il ruolo salvifico del sangue con cui gli ebrei avevano contrassegnato le loro porte prima dello sterminio. Per questo suo patire, le più antiche immagini ce lo mostrano coricato e non in piedi. Il simbolo però, rimanda anche al Cristo resuscitato e glorificato, come si legge più volte nell’Apocalisse. In questo caso, la docile bestia si afferma non solo come il Purificatore del mondo, ma anche come il dominatore, e l'iconografia medievale ce la presenta con una croce che le trapassa il corpo da parte a parte e verso la quale la sua testa si rivolge con la bocca semiaperta ad invitare con le parole del Signore: «Venite a me che sono dolce e umile di cuore e troverete il riposo delle vostre anime».
Per evitare confusione di culti e di credenze che avrebbero potuto sorgere per analogie di simboli (nel culto di Dioniso i fedeli sacrificavano un agnello per indurre il dio a tornare dagli inferi), il Concilio di Costantinopoli del 692 impose che l’arte cristiana rappresentasse il Cristo in Croce, non più sotto la forma dell’agnello affiancato dal sole e dalla luna, ma in forma umana.


Per i primi tre secoli la troviamo raffigurata sepssissimo sulle tombe e sugli epitaffi, ma dopo Costantino sparì quasi del tutto sostituita apertamente dalla croce. Nel Rinascimento prima e nell'Umanesimo dopo, riappare con significato diverso e divenendo simbolo della seconda virtù teologale: la speranza cristiana. Secondo san Paolo l’ancora a cui affidarsi è Cristo.

Il suo culto nasce in Egitto e ad esso venivano attribuiti importanti significati che la rendevano un uccello di buon auspicio e dal grande significato spirituale.
La Fenice venne associata al dio del sole Ra, divenendone l’emblema, tanto che il Bennu (il nome iniziale che poi in Grecia mutò in Fenice) divenne il geroglifico con cui si rappresentava la divinità del sole. A differenza di quanto possa far immaginare il nome, secondo le leggende la Fenice è unicamente maschio.
Celebre per essere l’uccello che risorge dalle proprie ceneri, divenne per questo simbolo della resurrezione di Cristo.
La leggenda narra che quando la fenice si sentiva prossima alla morte, raccoglieva erbe aromatiche quali sandalo, mirto, mirra, cannella e si costruiva un grande nido a forma di uovo e qui si lasciava morire arsa dalle sue stesse fiamme. Dalle sue ceneri nasceva un uovo che il sole faceva nascere e schiudere in tre giorni dando vita ad una nuova Fenice che volava via subito.


Per la sua bellezza e' stato raffigurato in molti preziosi mosaici rinvenuti nelle dimore dei patrizi romani, per i quali simboleggiava l'incorruttibilita'.
Si riteneva che sue carni, in particolari condizioni, non sarebbero mai andate in putrefazione. Per questo era considerato anche come un simbolo di immortalita'.
La straordinarieta' di questo uccello non finiva qui. Il fatto che nella stagione invernale perdesse le piume e ne acquistasse di nuove ed addirittura piu' belle a primavera, fece si' che il mondo cristiano dei primi secoli lo adottasse come simbolo di resurrezione. Questa e' la ragione per cui le sue raffigurazioni sono state ritrovate numerose nelle catacombe di Roma.
In effetti è curioso come questo uccello marino trattiene il cibo pescato in una sacca che ha sotto il becco e giunto al nido nutre i piccoli con esso curvando il becco verso il petto per estrarne i pesciolini. Gli antichi, erroneamente, pensarono che l’animale si lacerasse le carni per farne uscire il sangue con cui nutrire i piccoli pellicani affamati. Per questo, il pellicano è divenuto, durante il Medio Evo, il simbolo dell’abnegazione con cui si amano i figli e ne ha fatto l’allegoria del supremo sacrificio di Cristo, salito sulla Croce e trafitto al costato da cui sgorgarono il sangue e l’acqua, fonte di vita per la salvezza degli uomini.
Ecco perché esso compare spesso scolpito in molti altari e ricamato o dipinto nelle casule dei sacerdoti ancora oggi.
Fonte: