martedì 13 novembre 2012

Carcere e legge stabilità: il grido d'allarme del personale penitenziario

Carcere e legge stabilita' : il grido d'allarme del personale penitenziario
di Mauro W. Giannini
A luglio 2012, la Corte dei diritti dell'uomo ha stabilito che lo Stato è responsabile per il suicidio di un detenuto che abbia mostrato problemi psicologici e tendenze suicide ove l'amministrazione non abbia messo in atto adeguate misure di prevenzione e controllo a seguito di segnalazione del servizio medico competente, violando conseguentemente l'articolo 2 (diritto alla vita) e l'articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. E' una sentenza da ricordare oggi, nel momento in cui le scelte in materia di personale carcerario contenute nel Decreto Legge 95 del 6 luglio 2012, con la relativa legge di conversione ormai approvata, rischiano di peggiorare una situazione già preoccupante.
Proprio per denunciare tale situazione, i dirigenti penitenziari avevano scritto al ministro Paola Severino ed al Capo del Dap Luigi Tamburino per sottolineare che , produrrà un effetto devastante nel sistema penitenziario. l’ultima immissione in ruolo di direttori di istituto risale al 1997 e di direttori di Uepe risale al 1998 e che di contro, dal 2005 al 2012, sono stati immessi in ruolo n. 516 commissari di polizia penitenziaria, a cui è stato attribuito il compito di assicurare l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti, avvalendosi del corpo di polizia, composto, al 31 agosto 2012, da n. 37.127 poliziotti penitenziari. In conseguenza di queste scelte, ogni istituto ha in forza uno o addirittura più Commissari, ma neanche un Direttore titolare, per cui il potere di assumere decisioni importanti per la vita di tutto l’istituto e quindi di tutti i detenuti, oltre che degli altri operatori civili presenti (Educatori, Psicologi, Contabili, Amministrativi) viene demandato a professionalità che rappresentano e sono responsabili direttamente soltanto di uno dei compiti dell’istituzione.
I funzionari Giuridico-Pedagogici hanno invece appena predisposto una petizione per il Ministro della Giustizia per evidenziare, anche con dati numerici, la netta disparità che attualmente esiste nel sistema penitenziario tra controllo e trattamento. Per Paola Giannelli, Segretario Nazionale Società Italiana Psicologia Penitenziaria, si tratta di "aspetti entrambi necessari che, se fossero in equilibrio, potrebbero produrre: sicurezza per la comunità, riabilitazione per i detenuti. Viceversa, quando si parla dei problemi del carcere si riduce tutto a due punti: il sovraffollamento (problema drammaticamente reale) e la carenza del personale di Polizia Penitenziaria che non sembra essere così grave, o almeno, lo è molto meno rispetto a quella del personale del trattamento e di questa funzione che è in estinzione".
Nella lettera-petizione, i funzionari chiedono il rispetto "delle norme del nostro ordinamento che finalizzano il compito dell’Amministrazione Penitenziaria alla rieducazione del condannato attraverso un’azione tesa da un lato ad accertare “i bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione” (art 27 DPR 230/00), dall’altro alla RESPONSABILIZZAZIONE DEL DETENUTO/CONDANNATO, sia rispetto alla condotta che lo ha portato a delinquere, sia rispetto all’assunzione di impegni e comportamenti utili alla “tenuta” sul piano sociale in vista del suo ritorno allo stato libero".
La lettera al ministro Severino chiede quindi "di realizzare la coraggiosa scelta di “educare” l’opinione pubblica, trovando il coraggio di affermare che “certezza della pena” corrisponde a qualcosa di ben più complesso che alla semplice equazione punizione=sicurezza. A testimonianza di questo parlano i fatti. In poco più di trenta anni si è, di fatto, consumata la spinta ideale che aveva prodotto una riforma penitenziaria fra le più avanzate d’Europa. La riforma è datata 1975 e l’immissione dei primi operatori cosiddetti “del trattamento” all’interno degli istituti penitenziari e nell’area penale esterna (educatori e assistenti sociali) è avvenuta nel 1979. Con grande fatica e indicibile spirito di adattamento questi operatori hanno lavorato all’abbattimento delle barriere fra carcere e città, producendo un proliferare di iniziative di civiltà, con il contributo di enti locali, associazioni di volontariato, singoli cittadini, e dei molti operatori amministrativi e poliziotti penitenziari che hanno saputo cogliere l’elemento di progresso ed interesse professionale in una concezione della pena che avesse caratteristiche non solo di umanità ma anche strumento di ricostruzione del patto sociale infranto con il reato. Il clima interno così modificatosi ha permesso fra l’altro la drastica riduzione di situazioni di conflitto e violenza fino a quel momento all’ordine del giorno, relegando ad un passato che appariva remoto le rivolte dei detenuti, i sequestri degli agenti, i fatti di sangue fra gruppi rivali. Un risultato notevole – pertanto – proprio in termini di ordine e sicurezza".
Nel corso degli ultimi anni, ricordano i fnzionari Giuridico-Pedagogici, si è assistito invece "ad un nuovo trend ascendente di episodi gravemente conflittuali, sempre drammatici e talvolta sanguinosi, fra i detenuti e fra detenuti e operatori. Il caso Cucchi è diventato emblematico per la crudezza delle immagini e la determinazione dei parenti, ma a nostro avviso la quantità e la qualità delle morti in carcere, il numero crescente di episodi di autolesionismo, la povertà e la disperazione della gran parte della popolazione detenuta, testimoniano di una deriva culturale, morale e sociale di cui il caso Cucchi è la punta dell’iceberg. Sentiamo il dovere - afferma la lettera - di mettere in dubbio l’opinione diffusa secondo la quale il “problema” carcere, di cui oggi si sente parlare più che in passato, sia generato principalmente dal sovraffollamento e dalla carenza di personale di polizia penitenziaria. Il sovraffollamento è un problema serio e reale, che non può che diventare tragico se la vita quotidiana scorre all’interno della cella per oltre venti ore al giorno, dove persone di etnie, religione e cultura diverse condividono uno spazio irrisorio, in cui il divario economico fra detenuti pesa come un macigno e rende i più diseredati ostaggio dei più fortunati, in una dimensione relazionale di forte dipendenza da una autorità vaga e contraddittoria, che pensa e fa troppo spesso il contrario di quello che afferma. In quanto alla carenza di personale di polizia, l’esperienza di altri paesi europei ci dimostra che il rapporto numerico agente/detenuto in Italia è fra i più alti e che forse il problema è piuttosto di tipo culturale ed organizzativo. Ad ulteriore riprova di ciò, si segnala che in l’Italia, di contro, il rapporto numerico personale addetto al trattamento/detenuto è fra i più bassi: ed è proprio quel personale che viene considerato da questo Governo in esubero."
Anche 104 Psicologi Penitenziari operanti in vari istituti di pena avevano scritto al Guardasigilli chiedendo un intervento, ma non vi sono stati ad ora esiti concreti. Giannelli evidenzia che l'apporto della figura dello psicologo "è divenuto ormai virtuale: in media 5 ore al mese!" e pertanto "I detenuti per i quali non è possibile fare un approfondimento psicologico restano in carcere, alimentando il sovraffollamento".


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