lunedì 13 dicembre 2010

Trentadue anni di aborto di Stato - di Alessia Affinito

di Alessia Affinito                                                       


E’ stato un anno come pochi altri per la storia d’Italia. Oltre ad essere quello della morte di Aldo Moro e dell’elezione al soglio pontificio di Giovanni Paolo II, il 1978 è ricordato per l’approvazione di una legge in particolare, quella che ha disciplinato l’aborto. Unica norma al mondo di tal specie a recare la firma di cattolici. Ma il 22 maggio è stato il trentaduesimo anniversario di una svolta che sarebbe superficiale considerare soltanto come normativa.
La facoltà di abortire ha acquisito in questi decenni la dignità di diritto (anche se nella legge non si parla di “diritto d’aborto”), una pretesa individuale da soddisfare come servizio irrinunciabile. Da qui una quasi totale assenza di restrizioni, se non di mera forma. Il dibattito sulla liceità dell’aborto è spento da tempo, al punto che qualsiasi tentativo di frenare il ricorso ad esso appare come un’utopia. Nel frattempo è arrivata una pillola che consente di abortire a domicilio, nell’anonimato e nella solitudine. La novità, com’è ovvio, passa per un salto in avanti su quel tratto rettilineo chiamato progresso, sebbene rappresenti per ironia della sorte proprio quel che la norma si proponeva di scongiurare. Così la questione sarebbe davvero chiusa? La rassegnazione che si registra tra chi fino a qualche tempo fa contrastava la semplice idea di aborto libero e gratuito è palpabile, mentre sul versante opposto emerge a tratti una preoccupata attenzione ai rischi che le conquiste finora ottenute potrebbero correre. Poco importa che il bilancio di questa triste conquista sia stato pagato da cinque milioni di italiani che non hanno visto la luce. E meno ancora che di esso avrebbe potuto far parte, con l’assenso della legge, chiunque sia nato dopo il fatidico 1978.
Ma il punto è un altro. Invece di inaugurare una stagione di prevenzione (come pure i primi due articoli della 194 lasciavano credere), il varo di una legge ad hoc ha segnato piuttosto l’inizio della resa. Quella all’aborto come atto che-non-si-può-non-ammettere. Non solo, ma ha consentito che la soglia della “libertà di scelta” scivolasse in maniera pressoché inesorabile dal momento antecedente il concepimento a quello successivo. In altre parole: la libertà di essere madri finisce per avere il suo spazio d’esercizio non più prima del concepimento, come pure sarebbe ragionevole ritenere, ma tra questo e la nascita vera e propria. Più che una silenziosa omologazione al pensiero dominate, la non-reazione allo scandalo dell’aborto di Stato tradisce un tragico aspetto della nostra civiltà. Una disarmante indifferenza all’altro. Una tragica incapacità di identificazionecon l’altro. Dell’aborto, non a caso, si parla sempre dal di fuori; o meglio, una volta nati. L’unica identificazione possibile è con il soggetto di una libertà, la donna-madre. Ci si guarda bene dallo scegliere la parte più debole, quella del concepito. Non vi è chi si identifichi con la libertà negata di un essere per la morte. Effetto forse di un’ipocrisia coltivata fino all’esasperazione, che accettando e mistificando ogni desiderio non può che stare dalla parte del più forte.
Che cosa ci hanno consegnato trentadue anni di aborto di Stato? Questo è l’interrogativo più urgente. Una raffinata attitudine alla menzogna, prima di tutto. Il feto umano è un individuo al suo stadio iniziale, con un suo patrimonio genetico e una sua identità, che si manifesta attraverso un volto. Come mostrano chiaramente le immagini già all’ottava settimana di gestazione. Chi lo presenta come materia informe partecipa della menzogna collettiva che fa da sfondo a legislazioni anti-umane e liberticide. Ma la capacità di mentire sa andare oltre. Da anni i sostenitori di una piena libertà di aborto vanno ripetendo in maniera esasperante che gli interventi di questo tipo sono diminuiti, partendo dal presupposto che ciò si debba alla normativa vigente. E’ grave che tale dato non venga affiancato a quello – decisivo - sul crollo verticale delle nascite in Italia, il che consentirebbe di capire che in realtà la norma sull’aborto non c’entra affatto. A scendere, infatti, sono stati i concepimenti. La diffusione dell’omosessualità, l’accesso agevolato a tecniche di contraccezione, la difficile fertilità dovuta a numerosi fattori, sono le cause reali di un tale bilancio. Diminuendo i concepimenti non possono che risultare in calo gli stessi aborti (tra i quali non figurano peraltro quelli clandestini). Non si tratta pertanto di virtù normative, ma di logiche proporzioni.
Ma a trentadue anni di distanza si tratta di fare i conti anche con un altro lascito, la cui imprevista mutazione preannuncia un avvitamento di richieste legislative volte a regolare ogni minimo dettaglio della vita individuale. La concezione di un soggetto morale staccata da un contesto relazionale ed affettivo, nel quale pur si nasce, si vive e si muore. L’esclusione del consenso del partner quanto alla decisione di abortire, l’esaltazione di una libertà assoluta assegnata alla donna, insieme all’aura di sacralità di un diritto irrinunciabile, hanno richiesto come condizione la cancellazione di un legame, di una relazione. A cominciare da quella con il bambino, la cui libertà a nascere è stata violentemente rimossa. E insieme a questa, a scomparire è stato il legame con la propria comunità, sia essa ristretta (il partner, la famiglia) o più estesa, fino a ricomprendere l’intera cittadinanza. Al suo posto, un sistema socio-normativo che favorisce la deresponsabilizzazione più totale, consentendo alla coppia di adottare qualsivoglia comportamento, le cui conseguenze – anche da un punto di vista economico - vengono riversate sull’ intera collettività. Aspetto quanto meno discutibile: parliamo infatti di una forzata correità sociale alla morte di un essere umano, senza contare che gli stessi fondi a tal fine impiegati potrebbero avere ben altro utilizzo per il bene di una comunità. Non così in altri Paesi, dove è previsto invece un sistema privato – e dunque a carico di chi decide di ricorrervi – per l’esecuzione di aborti procurati.
Una libertà così assolutizzata recide in definitiva il suo legame con l’eguaglianza, che solo a parole è conquista dell’età moderna. Nascere oggi è un autentico privilegio, che a moltissimi viene negato. Certamente nella storia ciò è sempre accaduto, ma collocarsi con il consenso della legge sulla soglia della vita, per stabilire chi può e chi invece non può varcarla, è segno di un’eguaglianza offesa, tradita. L’attestazione che si è “più eguali degli altri”, al punto da attribuirsi il potere di consentire che alcuni godano del medesimo bene – la vita - che alle stesse condizioni viene invece negato ad altri. O che si è più liberi di coloro ai quali viene rifiutata la libertà di venire al mondo. La prova in fondo che l’aborto legale. libero e gratuito, prima di mettere in crisi la nostra umanità, attacca i presupposti stessi di un ordinamento liberale moderno.

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